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Dal punto di vista puramente teorico, il voto è una nostra espressione di preferenza in cui selezioniamo uno o più candidati per ricoprire un incarico specifico. In pratica, si è chiamati a votare per poter affidare (cioè dare fiducia) a qualcuno la dirigenza di un determinato ente o istituzione.

Quando poi i candidati si costituiscono in gruppi, movimenti o partiti è perché rappresentano valori e programmi comuni;  quindi affidare a loro il proprio voto non significa solo dare fiducia alle singole persone, ma  anche credere in un’idea, un programma, una prospettiva futura.

In passato, quando le ideologie erano più marcate e i mass media non erano ancora così invasivi quanto oggi, il voto, oltre a rappresentare un’idea di futuro, era anche manifestazione della classe sociale del votante. Infatti, ad essere votati erano i candidati, ma questi rappresentavano qualcosa di più ampio e profondo; si votava un’idea, un futuro, un’appartenenza.

Oggi il mondo è cambiato e il comportamento di voto è maggiormente influenzato dall’immagine del candidato, cioè da quanto il singolo leader sia capace di essere convincente, simpatico e abile ad attrarre le proiezioni del “pubblico” votante. Quello che il candidato mostra è più importante di quello che è e che rappresenta.

Infatti, gli studi indicano che gli elettori si affidano maggiormente alle caratteristiche dell’amicalità e altre caratteristiche legate all’immagine della persona più che al programma e ai contenuti.

Mi domando se questo cambiamento nella modalità di scelta di voto appena descritto stia avvenendo anche per le elezioni dell’Ordine oppure se gli psicologi siano una popolazione che, per le peculiarità delle loro competenze e conoscenze, si comporta in modo differente.

L’ultimo risultato elettorale potrebbe essere un elemento a favore della prima ipotesi, quella che gli psicologi votano secondo semplici scorciatoie cognitive legate all’immagine e all’amicalità.

Infatti, bisogna partire dalla considerazione che le elezioni ordinistiche servono ad incaricare qualcuno a governare la professione, cioè l’organizzazione della nostra attività lavorativa, quella che ci permette di guadagnarci da vivere. La crisi economica e le difficoltà che tutti stiamo attraversando nella nostra professione possono quindi spiegare la bassa numerosità dei votanti e il comportamento di non-voto. Tale comportamento racconta più di ogni altro i vissuti di sfiducia, rifiuto e rassegnazione che proviamo quando non riusciamo a svolgere la professione e fatichiamo ad ottenere un guadagno congruo. Questi vissuti attivano scorciatoie cognitive volte a risolvere il disagio, individuando la soluzione delle nostre difficoltà nella falsa credenza che i nostri interessi professionali individuali, per quanto siano connessi a come verrà diretto il nostro Ordine professionale , possano e vadano difesi esclusivamente nel privato. Di conseguenza si attivano comportamenti di non-voto o di voto nel caso si conosca personalmente il candidato che sembra cordiale e amichevole (nella speranza che possa aiutarmi personalmente in futuro, il famoso “santo in paradiso”).

D’altro canto, a favore della seconda ipotesi, cioè che gli psicologi sono in grado di comprendere oltre la mera immagine e la superficiale conoscenza del candidato, vi sono proprio le nostre competenze e conoscenze legate alla professione che ci permettono di fare una valutazione più articolata.

Infatti, noi psicologi abbiamo una capacità di comprensione delle persone e dei gruppi più profonda rispetto alla popolazione generale (almeno si spera!). Quindi, teoricamente, dovremmo essere più abili a discriminare la cordialità e l’apparenza di un candidato o un gruppo da ciò che esso rappresenta realmente, cioè il sistema di valori, il programma, la direzione futura.

Queste due ipotesi sarebbero da studiare empiricamente. Naturalmente la speranza di tutti è che sia vera la seconda ipotesi, altrimenti rischiamo di ridurci ad uno dei personaggi dei libri di Oliver Sacks, tra il comico e il patologico, e il nostro Ordine ne sarà lo specchio.