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L’esperienza del tirocinio professionalizzante è indubbiamente un passaggio molto significativo all’interno del percorso di formazione e crescita personale, soprattutto se partiamo dal presupposto che un processo formativo vero non può limitarsi al semplice addestramento ma deve , anche, riguardare le dimensioni più profonde della nostra personalità.

Ripercorrendo col pensiero esperienze di giovani colleghi, con cui nel tempo, ho avuto modo di confrontarmi, non ho potuto fare a meno di rilevare un aspetto contraddittorio che, spesso, connota l’esperienza dei neo-tirocinanti.

Poiché, se è nella progettualità di ogni intervento psicologico l’obiettivo di accrescere la consapevolezza del proprio valore e della propria “unica” natura, queste finalità, possono essere messe in ombra o totalmente disattese, quando si parla del percorso formativo degli psicologi.

A tal proposito, la legge sull’ ordinamento della professione psicologo n. 56 del 18 febbraio 1989, articolo 5 (attualmente in fase di revisione in quanto quesito referendario), ed il Decreto Ministeriale del 13. 1. 1992 n.239, prevedono che il tirocinio professionalizzante sia finalizzato a:

  •   integrare le conoscenze teoriche con le conoscenze pratiche
  •   apprendere procedure collegate a conoscenze psicologiche
  •   essere capaci di riflettere e discutere sulle attività proprie ed altrui
  •   riuscire a lavorare in uno specifico setting professionale con altre persone.

Per realizzare pienamente questi obiettivi è necessaria una buona consapevolezza del proprio Sé e saper rispondere alle domande “Che psicologo voglio essere” e “Quale formazione è più coerente alla valorizzazione della mia soggettività”.

Conseguentemente, le logiche di scelta del tirocinio professionalizzante, in nome del “dove c’è posto” o “dove è strategicamente più utile”, non possono permettere un passaggio molto significativo che implica necessariamente, una responsabilità maggiore e diversa, sia per chi forma che per chi è formato.

Questa esperienza, infatti, può avere una ricaduta importante sulla qualità della vita e la scelta del proprio ruolo professionale, soprattutto se finalizzata a sviluppare le macro-competenze individuali, ovvero, quelle risorse che permettono la connessione tra il repertorio globale delle abilità della persona ed il ruolo che quella persona vuole ricoprire, proprio contribuendo all’integrazione di queste due sfere personali si può superare l’ostacolo ed ottenere una migliore e più costruttiva gestione delle risorse individuali.

In questa prospettiva, la figura del tutor non è solo di colui che rende possibile l’accesso ad un sapere teorico/pratico, ma, anche e soprattutto colui che trasmette un bagaglio umano e una visione ispirata a valori.

Solo se sappiamo chi siamo e cosa siamo disposti a mettere in gioco di noi stessi al di là del sapere delle teorie di riferimento e delle scuole specializzanti, possiamo scegliere i nostri obiettivi.

Se, infatti, l’appartenenza ad una scuola offre da un lato sicurezza, possibilità di condivisione, strumenti, dall’altra può condurre ad un autoriduzionismo professionale e ad una chiusura. Al contrario, è auspicabile che ogni professionista si occupi di ampliare le proprie risorse professionali per poter andare oltre la propria scuola di provenienza, senza il timore di perdersi o rinnegare i propri maestri e principi ispiratori.

 

Quali obiettivi per gli psicologi?

 

Sentirci psicologi e, nel contempo, realizzati nella vita, capaci di posizionarci nel mondo del lavoro, sapendoci interfacciare con il mondo esterno, arricchendoci in uno scambio costruttivo, con colleghi e altri professionisti che incontriamo nel nostro percorso.

Con la chiara percezione che se scegliamo la via della libera professione sarà necessario approcciarci al mondo dell’utenza, dando per vero, che un”brand” personale non si costruisce per caso ma è frutto di un preciso percorso che, nella nostra società mediatica, avviene offline ed online.

Fare personal branding significa impostare una strategia, per individuare e definire i propri punti di forza, quello che ci rende unici e differenti rispetto alla concorrenza e saper comunicare in maniera efficace la nostra professionalità e quali benefici può portare alla nostra utenza. Un “brand” è reale nella misura in cui si è capaci di aggregare o aggregarsi intorno a una community.

Ai professionisti di oggi il mercato del lavoro chiede flessibilità. Tom Peters, guru americano del marketing, nel 1997, parla per la prima volta di Personal branding ; l’arte di costruire il proprio brand riguarda il modo con cui possiamo fare marketing di noi stessi, partendo dalle nostre passioni e da ciò che ci rende unici e degni di nota e, online come offline, la qualità del nostro brand è direttamente proporzionale alla qualità della comunicazione con noi stessi e con il mondo esterno.