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Dopo ben 26 anni dalla promulgazione della legge 56/89 istitutiva della professione di Psicologo, e a fronte delle più svariate esperienze individuali e collettive di colleghi provenienti dai più diversi ambiti d’applicazione professionale, abbiamo sempre più chiara e tristemente confermata dai fatti, la realtà di quanto sia difficile e faticoso il percorso di crescita della nostra categoria, che ci vede ancora oggi più che mai impegnati a raggiungere una più precisa definizione della nostra identità professionale.

 

Se da un lato, appaiono raggiungibili e ormai a portata di mano scenari professionali stimolanti e gratificanti, come quello dello psicologo del territorio – in un limbo di sperimentazione da più di 10 anni, e che non si è tradotta ad aggi, in precise azioni legislative e attuative capaci d’inquadrarlo, nell’organico della spesa sanitaria nazionale – dall’altra parte, un’ inarrestabile e progressivo processo di erosione ha ridotto sempre di più, sotto i nostri occhi attoniti, l’ambito delle competenze a noi proprie o, per meglio dire, così pensavamo che fossero.

 

L’antecedente legislativo: l’assenza di atti tipici ed esclusivi della nostra professione

L’Art.1 della legge 56/89 – che istituisce la professione di Psicologo – è un’enunciazione a carattere generico che recita: “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”

 

Pertanto, la mancata esplicitazione di specifiche tipiche ed esclusive, ha permesso inevitabilmente ad altre presunte professioni – con percorsi formativi decisamente più corti ed a buon mercato rispetto ad un nostro master o ad una specializzazione in psicoterapia – di proporsi sul mercato del lavoro utilizzando di fatto strumenti, pratiche e competenze proprie del ruolo dello psicologo. Paradossalmente, questo processo ha mietuto delle vittime anche tra gli psicologi, soprattutto della nuova generazione, che hanno scelto di promuovere se stessi attraverso un titolo, supplementare e accattivante, come quello di coach o counselor.

 

terraQuesto gap normativo e giuridico ha dato vita ed ha sostenuto, una rappresentazione dello psicologo nella società poco definita e spesso confusa con quella dello psicoterapeuta e dello psichiatra, e quindi centrata esclusivamente sulle dimensioni di cura, malattia e patologia, non contemplando purtroppo, gli ambiti della salutogenesi, della promozione di salute, della prevenzione e del benessere psicologico, e, sul piano della crescita sociale dello sviluppo, dell’ orientamento e del supporto agli individui ed alle organizzazioni. Questi territori perduti, sono stati prontamente occupati e commercialmente sfruttati dalle professioni limitrofe e – ancor peggio – dalle pseudoprofessioni (accessibili a chiunque senza eccezioni), spesso percepite dagli utenti finali come “più adatte e accessibili”. La psicologia è, tutt’ora, considerata nell’immaginario collettivo, una scienza dell’uomo che si occupa della mente, ed anche per questo è percepita con una sua intrinseca identità debole e indefinita.

 

Precarietà del lavoro e scelte obbligate

Le limitazioni occupazionali e la carenza di esperienze professionalizzanti, per compensazione, hanno portato molti colleghi ad accettare – per non perdere delle opportunità concrete di lavoro – di ricoprire ruoli “altri”, come quello dell’ educatore, dando vita involontariamente ad un mancato riconoscimento delle proprie competenze e, molto spesso, ad uno sfruttamento di queste in un duplice, quanto ambiguo, ruolo professionale. Complici e spesso artefici di tutto ciò, in questi anni di forte decrescita occupazionale, sono stati i diversi Enti, le varie Cooperative e le ininfluenti e disattente politiche sociali, che hanno permesso questo fenomeno di deriva professionale – soprattutto per una mediocre gestione organizzativa e/o per convenienza economica.

 

Nel contempo, il processo di erosione di ambiti e competenze proprie della psicologia si è manifestato con evidenza e coerenza nel corso degli anni ed è attualmente quanto mai attivo e vitale. Per fare qualche esempio possiamo partire dal comparto scuola, dove non è mai stato regolamentato e normato il contributo dello psicologo scolastico e sempre più spesso, è stato rimpiazzato dalla figura dello psicopedagogista; per proseguire nell’ambito socio-organizzativo, ed in particolare nella selezione del personale, dove per anni è stato possibile a molti di operare senza riconoscere alla psicologia alcuna specificità e così anche nell’ambito della sicurezza e dello stress lavoro correlato, nostro campo d’elezione per eccellenza, la formazione è stata affidata a professionisti – non necessariamente laureati – accreditabili con un ridotto numero di ore (dalle 24 alle 32).

 

Passando poi all’ambito del terzo settore, nello specifico dei Centri che operano nella disabilità e riabilitazione, la presenza dello psicologo – che talvolta non è tra i requisiti richiesti per l’accreditamento della struttura – è, ampiamente, surclassata da quella dei fisioterapisti e dei logopedisti.

Ultimo eclatante esempio di territorio sottratto alle competenze dello psicologo libero professionista, anche se adeguatamente formato e specializzato, è quello della diagnosi nell’ambito dei Disturbi Specifici di Apprendimento (come da legge 170/2010, fino alla recente revisione del DGR n.2315 del 9.12.14), ambito in cui “La diagnosi dei DSA è effettuata da neuropsichiatri infantili o psicologi, dipendenti dalle aziende ULSS, ospedaliere e ospedaliero-universitarie integrate, o da strutture private accreditate.”

 

 

La sfida del futuro: trasformare la debolezza in una nuova “forte” identità professionale

Il futuro della nostra professione è intrinsecamente legato alla capacità di evolverci, con il mutare della società; per favorire questo processo, è necessario costruire efficaci politiche sociali e strategie di sviluppo tali da elevarci, agli standard europei ed internazionali, all’interno dei quali la psicologia ha, già da diversi anni, un ruolo ed un confine ben preciso.

 

Per raggiungere questo ambizioso traguardo è necessario e urgente che gli Ordini Regionali perseguano, nel tessuto culturale di ogni territorio, una strategia di valorizzazione del ruolo, dell’immagine della psicologia, dei suoi presupposti scientifici e dell’efficacia e dell’utilità dei suoi contributi, nelle diverse e “nuove” aree di applicazione, in un dialogo costruttivo con le altre professioni e con i poteri politici, ove opportuno.

 

Nella misura in cui, questo cammino collettivo, riuscirà a far prevalere la tesi che è più utile e conveniente prevenire anziché “riparare e curare” e che gli interventi psicologici possono realmente migliorare la qualità della vita delle persone, delle famiglie e delle organizzazioni, si aprirà concretamente la possibilità di creare nuove e reali opportunità di lavoro per gli psicologi. Sostenendo, con azioni sinergiche e coerenti, come singoli e come gruppo professionale, una cultura basata sui valori e sui meriti professionali e, abbattendo i poteri e le logiche degli interessi privati e di corporazione, il terreno per la psicologia e per gli psicologi potrà diventare fertile ed, in tal modo, potrà far fiorire una nuova, ma soprattutto, “forte” identità professionale.